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Cina, Africa e Islanda: Diversità convergenti.

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Autore: Flavio Gori

Nel mese di Agosto 2011 alcuni quotidiani in rete e su carta hanno dato un certo rilievo alla proposta di Huang Nubo, un magnate del mercato immobiliare cinese che ha proposto al governo islandese di acquistare circa 300 km quadrati nel nord est dell’isola allo scopo di aprire un grande complesso turistico. (1)

In Islanda l’offerta ha scatenato un’ampia discussione fra due visioni diverse, la prima contraria e timorosa che questo sia il primo passo di un ingresso sempre maggiore del Paese asiatico sul suolo islandese e l’altra più possibilista, anche a causa del periodo molto poco felice dell’economia dell’isola a seguito della crisi finanziaria del 2008 che ha colpito forse più di altri Paesi proprio quella bellissima terra nordica.

 

Entrambe le fazioni hanno ben chiaro che dopo la crisi finanziaria del 2008 i Paesi Occidentali che sembravano aver messo stabili radici in Islanda, se ne sono rapidamente allontanati. Questo è avvenuto quando la piccola Nazione (circa 320.000 abitanti in 103.125 km/q) avrebbe avuto bisogno del loro aiuto per risollevarsi dalla forte crisi in cui era precipitata e che per vari aspetti era stata provocata dalla finanziarizzazione di quell’economia che traeva le sue origini da certe teorie monetariste che in America avevano avuto la loro genesi primaria, prima di espandersi in buona parte del mondo.

I Paesi e le Corporation occidentali, dopo aver sfruttato per anni le caratteristiche fiscali e finanziarie che il Governo locale aveva messo a loro disposizione, una volta che il castello di carta liberista crollava  (cosa peraltro avvenuta ovunque si sia presentato) si allontanarono dal suolo islandese senza indugio, lasciando dietro di sè le rovine di una politica economica e finanziaria fallimentare che anche nel resto del mondo sta creando danni difficilmente riparabili. Il paradosso è che più danni queste politiche creano e più che molti Governi pensano di risolverli estremizzando le scelte liberiste che già hanno posto in atto. Un paradosso puro, ma anche duro e assai difficile da accettare per le popolazioni interessate. Ciò nonostante sembra che maggioranze e opposizioni siano ormai e da anni convinte che questa è l’unica medicina per far andare avanti l’economia. Un altro dei paradossi più acuti nei quali ci troviamo a vivere in questo inizio di millennio, figlio prediletto del conformismo.

Quest’offerta cinese all’Islanda (che sembra l’Islanda abbia rifiutato a fine novembre 2011 nel timore che questo ingresso cinese possa rivelarsi d’importanza strategica sulle rotte nordiche*) è solo una della serie di eventi e confronti che in qualche modo uniscono questi due Paesi e sotto certi aspetti è una forma di collaborazione che da un lato chiude un po’ il cerchio, dall’altro potrebbe aprire un nuovo periodo nelle relazioni politico commerciali fra le due Nazioni.

Questo sembra confermato dalle trattative in atto per la definizione di un ulteriore accordo per lo sfruttamento delle risorse geotermiche dell’isola del nord atlantico, allo scopo di meglio usare energia a basso impatto ambientale, a cui sembra molto interessata la Cina.(1)

Vale la pena di ripercorrere brevemente alcune tappe della storia recente dell’economia mondiale, prendendo come esempi proprio Islanda e Cina, due Nazioni molto diverse, con specificità proprie e dove è arduo incontrare analogie, eppure si tratta di due dei Paesi le cui rispettive evoluzioni a partire dagli anni 80 del secolo scorso, dicono molto su quanto è accaduto nel mondo e sui costi che si son dovuti pagare a seconda delle scelte che i diversi Governi hanno fatto.

Islanda e Cina sono due Paesi che per molti secoli hanno vissuto ai margini delle evoluzioni storiche mondiali, anche a causa di colonizzazioni che sono terminate a ridosso della Seconda Guerra mondiale, a metà del secolo scorso. Nei decenni successivi, entrambi i Paesi hanno cercato una propria via all’industrializzazione, la Cina lo ha fatto dopo aver combattuto una Rivoluzione che l’ha portata nel Comunismo, mentre l’Islanda ha cercato un’evoluzione nell’ambito occidentale, a cui non dev’essere stata estranea una stabile presenza americana con un’importante base aerea nei pressi della capitale Reykjavik.

In quegli anni entrambe tentano un salto industriale, ponendosi l’obiettivo di creare un’ industria pesante: la Cina con la produzione di acciaio, l’Islanda con l’alluminio. Nessuna delle due riesce a raggiungere i risultati previsti e all’inizio degli anni ’80 devono necessariamente rivedere i rispettivi piani di crescita e sviluppo. Siamo agli albori della globalizzazione, le teorie neoliberiste sono ormai uscite dalle aule universitarie e in alcune Nazioni sono già state messe alla prova, seppure con risultati drammatici per le popolazioni ma anche per gli Stati che vi si sono affidati:  Cile e Argentina in primis. Eppure, nonostante queste severe lezioni, queste teorie economiche e finanziarie continuano a essere presentate come la panacea dei problemi che in quegli anni il mondo si trova ad affrontare. L’inflazione, ad esempio.

Ronald Reagan e Margareth Thatcher sono ormai al potere, rispettivamente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e si apprestano a propagare le teorie di Milton Friedman e poi dei cosiddetti Chicago Boys, in tutto il mondo. Lo Stato deve essere ridotto al minimo perché il mercato sarà così in grado di autoregolarsi per il bene di tutti. Questo è in poche parole il mantra a cui politici, economisti, banchieri e giornalisti si uniformano e che diventa l’incontrastato vincitore delle dispute internazionali, sia di carattere culturale che pratico. Com’è possibile che nonostante le disfatte cilene e argentine, questo criterio sia ancora ritenuto valido anche da politici di sinistra? Forse il crollo del Muro di Berlino ha per così dire facilitato certi cambi di maglia, ma molti di questi si erano verificati anche alcuni anni prima e, dobbiamo ricordarlo, anche ai nostri anni vediamo che il neoliberismo continua a esser considerato la teoria di riferimento, nonostante abbia continuato a mietere vittime ovunque. Più si dimostra inadeguato e più viene sostenuto, anzi dopo ogni sconfitta, la soluzione che viene proposta è di approfondire il liberismo in quei dati Paesi già a pezzi per la medesima teoria. Resta da capire ‘ perché di questa compulsione ma non solo per coloro che lo propongono, ma anche per tutti quelli che accettano tale cura, mostrando un conformismo di fondo, davvero preoccupante anche perché autolesionista.


Tornando a Cina e Islanda, vediamo che negli anni ’80 del secolo scorso, i due Paesi iniziano a prendere decisioni antitetiche: mentre l’Islanda s’incastona nel liberismo occidentale e diventa una specie Nazione fondo d’investimento, la Cina diventa la manifattura del mondo ma senza indebitarsi. Continua quindi a lavorare come si è fatto anche in Occidente fino a pochi decenni prima. Anzi è l’Occidente che procura alla Cina le strutture di cui ha necessità affinché possa sostituire la produzione che dai vari Paesi occidentali viene trasferita nella Nazione asiatica che sembra in grado di fornire costi ridicoli in confronto a quanto avviene in Occidente. Il prezzo reale di questo trasferimento sarà visto dagli occidentali dopo una trentina d’anni, ma questo è un altro discorso e andrebbe discusso con chi ha avuto la geniale idea di trasferire le manifatture in Cina, generando grandi guadagni per alcuni settori, ma solo per qualche anno, dato che impoverendo le categorie medie e inferiori dei Pesi occidentali, ha di conseguenza diminuito il suo mercato potenziale. Se questo è vero per l’Occidente, non lo è per la Cina, che ha invece visto aumentare a dismisura la sua ricchezza che nel breve giro di 30 anni è ormai in grado di condizionare l’economia e quindi la politica e quindi la direzione dello sviluppo e quindi del futuro di molti Paesi occidentali, Stati Uniti inclusi.

Ad esempio acquistando oppure no il debito sovrano di quei Paesi.

 

A seguito della forte crisi finanziaria post 2007 dobbiamo iniziare a porci un altro problema: può la Cina essere in grado di influenzare i corsi azionari (o approfittare della speculazione sui mercati internazionali) per acquistare al miglior prezzo le migliori aziende occidentali, magari trasferendone poi il cuore in Cina? I mesi a cavallo tra il 2011 e il 2012 potrebbero darci informazioni interessanti, al riguardo. In questo modo avremo la possibilità di capire l’evolversi dei prossimi anni per il nostro futuro. Questione discriminante sarà la qualità dei nostri politici, dei nostri economisti a confronto con uno dei problemi più grandi di macroeconomia degli ultimi secoli. Abbiamo avuto 30 anni per prepararci all’arrivo di questa crisi, nei prossimi mesi vedremo chi meglio l’ha studiata e approntato gli strumenti più consoni a venirne fuori in modo da non peggiorare il livello di vita della Nazione e non solo di alcune sue parti.

Rientrando sul tema specifico Islanda-Cina, cerchiamo di vedere come si è posta la piccola e poco abitata isola del nord Atlantico rispetto agli avvenimenti internazionali che hanno finito col coinvolgerla. Diciamo subito che, contrariamente a quanto sembrava all’inizio di tale coinvolgimento, rispetto all’economia cinese, quella islandese non è stata altrettanto fortunata. Dopo un inizio sfolgorante che l’ha portata a diventare la seconda nazione più ricca al mondo per reddito pro capite, nel momento in cui la crisi finanziaria ha cominciato a colpire, la debole Islanda che si era trasformata in un‘apparente ricchissima fucina di finanza a moltiplicazione automatica di denaro, si è afflosciata come un dolce mal riuscito e molti dei suoi pochi abitanti si sono da un giorno all’altro ritrovati dalle stelle alle stalle, prossimi a elemosinare perfino il carburante dei propri pescherecci che aveva dovuto frettolosamente rimettere in mare per riprendere una delle sue più tipiche, antiche ma affidabili tradizioni lavorative: la pesca.

Abbiamo quindi due Nazioni che per un certo periodo di tempo sono state simili nelle problematiche vissute, ma che a un certo punto hanno scelto vie diametralmente opposte per cercare di migliorare il proprio livello di vita. Da un lato, l’Islanda che ha sposato la teoria finanziaria del momento che prometteva mirabilie e che in effetti per i primi tempi le ha pure portate. Solo che poi trattandosi grosso modo solo di un’enorme bolla speculativa che non poggiava su alcun fondamento di economia solida e reale, si è sgonfiata ancora più rapidamente riportando gli islandesi al livello precedente e con tanti sogni in meno, seppure più coscienti della realtà, al punto di aver ingaggiato un’estesa battaglia per diminuire l’influenza di enti internazionali che intendono guadagnare sia sulle crisi che sul come uscirne. Questo fatto ha avuto poca risonanza internazionale, ma gli islandesi hanno probabilmente maturato una consapevolezza che li aiuterà molto nelle prossime mosse di quel Paese, riuscendo a scrivere buona parte della nuova costituzione a mezzo Facebook, nonché a mandare in giudizio il premier che era al potere e che secondo la maggioranza degli elettori ha gestito malamente la situazione.

Dall’altra parte abbiamo la Cina che rifiutando selettivamente le teorie economiche e più che altro finanziarie dell’Occidente ha deciso di accettare per un certo periodo di anni la parte della nazione-fabbrica, con costi terribili per la salute di buona parte dei suoi lavoratori, ma allo stesso tempo facendo rapidamente arricchire lo Stato che mai si è adagiato su quei guadagni, ma che al contrario e grazie ai soldi che arrivavano dall’Occidente, ha potuto investire sull’istruzione e la ricerca in modo da garantirsi un futuro scientifico, tecnologico e commerciale, non al seguito di altri ma d’avanguardia. I primi frutti pare siano già presenti con alcune dimostrazioni molto forti, come il primo astronauta cinese che ha orbitato intorno alla Terra un paio di anni fa.

Questo fatto ha probabilmente scombinato i progetti di coloro i quali per primi hanno garantito a Pechino l’iniziazione manifatturiera e che avrebbero forse preferito e ipotizzato per la Cina un futuro di semplice fattrice (e contenitrice di ogni aspetto legato alla costruzione, come l’inquinamento che spesso produce) di cose che poi l’Occidente avrebbe usato. Ma le cose hanno preso una diversa piega, tanto che la crisi finanziaria del 2008 ha creato assai più problemi in Occidente che in Asia, dove a parte il primo trimestre 2009, l’economia ha ripreso a marciare spedita. Per dare un esempio di questa marcia, prendiamo in esame il terzo quadrimestre 2011 quando la Cina viene accusata di aver rallentato la sua corsa solo perché il suo Prodotto Interno Lordo (PIL) si è attestato al 9.1% rispetto al 9.5% del precedente periodo e rispetto all’anno precedente. Cosa dire allora di quei Paesi occidentali che si dibattono tra lo 0 e lo 0.2%?

Ma se in Occidente la crisi continua a mordere, dov’è che la Cina vende i suoi prodotti che, non dobbiamo scordarlo, non sono solo e soltanto di basso e bassissimo livello tecnologico?

Il punto è che il mercato interno potenziale della Cina è grosso modo pari al doppio di quello occidentale e una redistribuzione appropriata dei guadagni ottenuti in passato e che continuano anche oggi, ha portato alla crescita dei ceti medi e inferiori. Non dobbiamo dimenticare che ciò è avvenuto nonostante le Camere di Commercio occidentali operanti in Cina, che già nel 2006 si siano opposte ad aumenti di stipendio e dei diritti dei lavoratori cinesi. Lo Stato cinese non ha però aderito completamente a tale richiesta e il mercato cinese continua la sua espansione, fino al punto di far intravvedere la possibilità che la Cina venda nel mercato interno un’ampia parte della propria produzione, affrancandosi dalla necessità di vendere all’estero la sua ampia produzione. Le conseguenze politiche ed economiche di questo fatto sono tutte da verificare.


Islanda e Cina si avvicinano

Dunque sembra che dopo aver seguito rotte abbastanza simili e parallele per molti decenni, Islanda e Cina hanno intrapreso vie diametralmente opposte con risultati altrettanto diversi. Cerchiamo di vedere cosa sta accadendo in questi mesi, per provare a capire cosa avverrà nel futuro prossimo.

Come dicevamo all’inizio di questo articolo, subito dopo la crisi finanziaria del 2008 le Corporation Occidentali hanno rapidamente lasciato l’isola del nord Europa quando i vantaggi di cui avevano fino ad allora goduto si stavano azzerando. Nella già citata intervista al Financial Times, il Presidente islandese Olafur Grimsson non sembra pensare che questo comportamento sia stato riservato all’Islanda per qualche ragione che vede la sua Nazione colpevole di aver commesso qualcosa che non avrebbe dovuto e probabilmente ha ragione.

Per meglio analizzare questo aspetto ma in altro contesto, possiamo prendere in esame l’Occidente in relazione alle importazioni ed esportazioni nei e dai Paesi africani. Alla fine, anche in questo caso, ci troveremo davanti la Cina e il suo modo di fare affari col mondo. Dunque un’ulteriore analogia che vede vicine Cina e Islanda. Due Paesi che più diversi non potrebbero essere ma che offrono entrambi il destro per capire quel che la globalizzazione può riservare a seconda che uno la segua o la sfrutti. Anche i Paesi africani possono raccontarci qualcosa al riguardo, com’è tipico di quelle Nazioni e del loro rapporto con l’Occidente coloniale e sotto alcuni aspetti, antesignani delle conseguenze di ciò che ora si chiama globalizzazione.

Per far questo e meglio apprezzare le accuse che da varie parti occidentali sono state mosse alla Cina, spesso accusata di occupare economicamente vaste zone dell’Africa, prendiamo in esame uno dei casi tipici di questa accusa: il settore tessile. L’import-export africano nel settore tessile a fine anni ’90 era uno dei fiori all’occhiello dell’economia locale, ma questo avvenne quando alcune decisioni di enti internazionali, fra cui quelle del African Growth and Opportunity Act, avevano permesso di liberalizzare l’importazione di materiali grezzi da Paesi che in Occidente sono contingentati, come India e Cina e quindi trarre condizioni di grande vantaggio nel creare aziende di produzione in territori (spesso) di ex colonie occidentali che poi avrebbero esportato senza pagare tasse e aggirando l’Accordo Multifibre, che prevede i limiti sopra accennati alle importazioni per le Nazioni Europee e Americane.

Traslocando in Africa le Aziende occidentali possono importare quanto desiderano sia in termini di qualità che di quantità, lavorarlo sul posto e rivenderlo ovunque.

Quindi grazie a queste liberalizzazioni le maggiori aziende tessili occidentali si trasferirono in Africa ma a leggere le statistiche, poteva sembrare che tali esportazioni avvenissero da aziende genuinamente africane o nate per dare un’opportunità a quelle economie.

In realtà, quando tali liberalizzazioni cessarono, le aziende licenziarono la manodopera locale, tornando nei loro Paesi d’origine oppure, più spesso, andarono alla ricerca di altre Nazioni disposte a liberalizzare i loro mercati e a quel punto fu ancora più chiara la situazione: il tessile africano non esisteva se non in misura assai ridotta rispetto a quanto poteva sembrare leggendo superficialmente le statistiche. (2)

A quel punto la Cina ha colto l’occasione per poter sostituire le aziende che si erano trasferite altrove, alla ricerca di quelle facilitazioni che lì non erano più disponibili. Il governo di Pechino, come altrove ha fatto, cerca non tanto di avere vantaggi sull’immediato, quanto di costruire un rapporto duraturo con i Paesi presso i quali inizia una collaborazione. Ad esempio, visto che tali collaborazioni vengono di regola organizzate nei Paesi ricchi di materie prime, se nella tal Nazione qualche Corporation cinese arriva per sfruttarne almeno in parte i pozzi petroliferi (o l’uranio o le terre rare o altro), il Governo cinese offre la fornitura e costruzione di infrastrutture, come ponti, strade e autostrade, ospedali e così via. Così facendo non assume agli occhi delle popolazioni locali le vesta del colonizzatore usa e getta come fin troppe volte è accaduto con i Paesi occidentali. Eppure sia gli uni che l’altra hanno lo scopo di fare affari e magari prendersi le materie prime africane, ma sono accolti in maniera diversa. Questa differenza di rapporto non dovrebbe meravigliarci troppo: la stessa ENI ai tempi di Enrico Mattei ebbe un trattamento abbastanza simile, perché altrerttranto simile era quello di Mattei nei confronti dei suoi interlocutori.

In un’intervista del giugno 2009 l’africanista Ian Taylor fa notare che questo rapporto Cina-Africa per quanto incredibile possa apparire prende le mosse dai fatti di piazza Tien An Men nella primavera 1989.

Dopo le repressioni avvenute a quei tempi, che tanto spazio occuparono sui nostri media, la reazione di molti paesi africani e dei loro leader fu diversa da quella che caratterizzò l’Occidente (compresi i partiti dell’allora sinistra). Anziché seguire la falsariga occidentale e demonizzare Pechino (pur facendo crescere a dismisura l’import-export), molti africani cominciarono a pensare che se l’Occidente è così avverso alla Cina, allora l’Africa e la grande Nazione asiatica potevano avere dei punti di contatto: entrambi non hanno un ottimo rapporto con l’Occidente che troppo spesso ha voluto stabilire con loro rapporti vessatori, colonizzatori anche in epoche moderne e contemporanee.

Può essere questa un’inattesa occasione per creare collaborazioni e accordi di ampia portata? Dato che questo interessa entrambe le parti, la cosa comincia a prendere forma e da allora questa rete di accordi non ha smesso di essere costruita, forgiata, aggiornata.

Ricordo anche un piccolo ma significativo evento che mi capitò nel 2001 quando ero appena arrivato in Zimbabwe e mi sedetti a un bar per prendere un caffe. Il cameriere che mi si avvicinò, non mi chiese cosa volessi consumare, mi chiese solo: sei inglese? Alla mia risposta negativa, proseguì: Sei americano? Alla seconda risposta negativa, parve tranquillizzarsi e non sembrò far caso al fatto che gli stavo dicendo che ero italiano. Ebbi la sensazione che non sapesse cosa significasse esattamente la parola “Italia”, ma probabilmente il fatto che non fossi né inglese, né americano era per lui sufficiente per decidere di servirmi cordialmente il caffe che stavo ordinando e scambiare due parole un po’ meno di circostanza.

Questo piccolo aneddoto credo aiuti a spiegare il sentimento che alberga (o allora albergava) in Zimbabwe e forse in altre ex colonie. E probabilmente spiega anche perché così tante testate giornalistiche Occidentali e in particolare anglo-sassoni si sono spese parecchio per diminuire il potere di Robert Mugabe e altri presidenti africani che non erano in grande sintonia con l’ex colonizzatore.

Diciamola in poche parole: molti in Africa avrebbero il desiderio di cominciare a far pagare qualcosa alle potenze coloniali occidentali. E allora perché non iniziare dal campo economico, visto che in questi anni pare essere arrivata una potenza economica che sembra in grado di parlare da pari a pari con le maggiori potenze coloniali?

Certo nessuno può dire se a un certo punto anche la Cina potrà comportarsi come gli altri, ma per ora le sue caratteristiche sembrano diverse. E forse ciò conta qualcosa in chi, in Africa ma anche altrove, deve prendere le decisioni. Il fatto che la Cina non abbia rifiutato il suo aiuto anche a quei Paesi, come il Congo, a cui nessuno dava più il benché minimo credito, ha certamente migliorato la sua immagine in Africa e contribuito a farla percepire come diversa dagli altri Paesi ricchi che cercano di stringere accordi in Africa.

Dunque a un certo punto è come se molti dei Paesi africani ricchi di materie prime si fossero ritrovati su un concetto base forse in grado di diminuire i tempi necessari alla costruzione di una Società più equa e per far questo avessero deciso di partire dalla questione economica ponendola a fondamento della futura Società. Tale idea viene ripresa anche da Mark Leonard (4) il quale non esclude che gli africani abbiano deciso di coinvolgere nel loro tentativo di modernizzazione la Cina non solo perché non Occidentale, ma anche perché vogliono seguire il suo modello: prima perseguiamo il cambiamento economico e una volta raggiunto questo riformeremo la politica.

Si tratta di un aspetto un po’ contrario a quanto si teorizza ad esempio in Europa negli anni post Seconda Guerra mondiale, ma a ben guardare, non è  lo stesso che ha permesso la creazione dell’Euro e della Comunità Europea? Bypassare le lungaggini spesso senza sbocchi della politica con un accordo sulle basi economiche.

Il fatto che negli ultimi 30 anni la politica abbia accettato di diminuire il proprio valore sugli scacchieri internazionali a favore della finanza e del potere economico, ha certo aiutato queste decisioni, il che non significa che sia una strada che porta reali benefici in termini di democrazia economica. Da quanto stiamo avendo esperienza, sembra esattamente il contrario, ma al solito quello che fa la differenza non è tanto la tecnica scelta per arrivare a un risultato, quanto le persone che la attuano.

Nei primi mesi del 2011 sembra che la stessa cosa stia accadendo in Islanda. Dopo anni trascorsi a vedere scendere dai jet privati economisti e finanzieri di varia provenienza con micidiali valigette in braccio e dopo aver visto impennarsi il proprio livello economico ma poi altrettanto rapidamente vederlo scendere a livelli ben più bassi di quanto era stato prima dell’ubriacatura neoliberista, l’intero popolo islandese ha deciso di cambiare registro, arrivando a incarcerare l’ex primo ministro, colui che era in carica quando l’ubriacatura prese piede. In pratica è stato riconosciuto colpevole di non aver bene valutato le conseguenze di una trasformazione che era stata dipinta come l’ingresso nel paradiso senza dover pagare il dazio della morte. (3)

Non appena la collaborazione con l’Occidente iniziava a sfilacciarsi e l’Occidente cominciava ad abbandonare l’isola in cerca di altri lidi nei quali riprendere le attività, anche l’Islanda ha guardato a Pechino. Un po’ perché solo la Cina sembra avere i capitali per aiutare chi è in sofferenza e un po’ perché probabilmente alcune delle caratteristiche che hanno reso simpatica Pechino agli africani, potrebbero fare lo stesso effetto agli islandesi e forse anche a qualche altro Paese europeo. (Nota a)

Non appena si è stabilita questa volontà comune di collaborazione, ecco che sono arrivate occasioni d’investimento in comune sul suolo islandese, sia sotto la forma turistica cui si accennava in apertura (un imponente impianto alberghiero nel nord est dell’isola), sia sotto forma di una ricerca per lo sfruttamento dell’energia geotermica islandese, che potrebbe esser parte del grande progetto cinese di progressiva sostituzione delle energie fossili attualmente in uso, con altre pulite. Ricordiamo che già dalla fine del 2010 la Cina è la nazione al mondo che produce col maggior uso di energia verde.

Dato che queste attività prevedono la piena collaborazione dei due governi, si può ragionevolmente pensare che i progetti non siano di breve durata e potrebbero essere solo la prima punta di un iceberg che a breve emergerà nella sua completa portata. Fin da ora possiamo però prendere in esame quanto la Cina ha fatto in altri Paesi dove si è inserita e quindi immaginare collaborazione economica e finanziaria (sotto certi aspetti in aperta concorrenza col Fondo Monetario Internazionale che non a caso blandisce sempre più da vicino Pechino cercando di coinvolgerlo all’interno del Fondo) su infrastrutture che potrebbero portare tecnici e manodopera cinese in quella sperduta isola a contatto con l’Artico, ma che proprio per questo sta assumendo una sempre maggiore importanza geostrategica, anche in funzione del fatto che col riscaldamento globale, i passaggi navali in zona Artica diventano possibili e quindi usare e controllare quelle rotte sarà uno dei must negli anni a venire.

Questo deve far riflettere anche sulle capacità della diplomazia occidentale di mantenere i rapporti di forza internazionali da tempo operanti. Cosa che al momento pare sfuggirgli di mano. Dato che di pari passo ha perduto anche la capacità di produrre economia vera, la domanda che potremmo farci è: dopo aver perso via via aree geopoliticamente fondamentali per avere e mantenere una posizione guida, sarà in grado l’Occidente di riprendersi la leadership mondiale? E se si, quando ma soprattutto: come?

Domande non facili a cui dare risposta. A meno che non si osservi l’attività geopolitica americana con un’altra prospettiva. Ci sono alcuni aspetti, secondo i quali potremmo persino pensare che Washington si stia orientando diversamente.

Ma questo potrà essere occasione di un’altra riflessione.

 

 


Bibliografia:

1) Miliardario cinese vuole comprare lo 0,3% dell’Islanda - corriere.it

http://www.corriere.it/cronache/11_agosto_30/burchia-cinese-islanda_5ba1367c-d2f0-11e0-874f-4dd2e67056a6.shtml

2) Geothermal power: A laboratory for life after fossil fuels, da Financial Times on the web:

http://www.ft.com/intl/cms/s/0/50fe2a3e-e5e4-11e0-8e99-  00144feabdc0.html#axzz1aMDn0rcS

3) Maonomics di Loretta Napoleoni, Edizioni Rizzoli, 2010

4) Citazione dal discorso di Steve Jobs all’Università di Stanford anno 2005 in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa al cofondatore di Apple

* Vedi Financial Times 26/11/2011 http://www.ft.com/intl/cms/s/0/26b0f8e2-178a-11e1-b157-00144feabdc0.html#axzz1eKsCgOFy

 

 

Note:

a) A margine di questo diciamo che l’intera Europa potrebbe essere sotto l’occhio vigile di Pechino che però al momento non pare aver ancora deciso se e quando aiutare l’intera area dell’Euro – che pure non sta tanto meglio dell’Islanda -, forse attende non solo di capire cosa è in grado di fare quest’area, ma anche che accetti i propri diktat e con ciò che l’Europa riconosca ufficialmente il vero e proprio capovolgimento dei poteri internazionali che questo comporterebbe.

Ultimo aggiornamento Lunedì 23 Gennaio 2012 15:40