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Conformismi

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Autore: Flavio Gori

Lo sentiamo ripetere spesso: senza l’europa saremmo persi. Al di fuori dell’Europa non avremmo possibilità di vivere, la globalizzazione ci ucciderebbe. Qualcuno pensa che sia proprio questa globalizzazione a ridurci in brandelli? Forse, ma certamente è in agguato lo scettico di professione, il conformista del pensiero che va per la maggiore, pronto a rintuzzare ogni possibile ipotesi extra europea decretando che, dati alla mano, ormai non ci sono alternative: in Europa siamo e qui dobbiamo restare (finchè la Germania lo vuole, naturalmente). Torna in mente uno scienziato che trovandosi a scontrarsi con simili conformismi, aveva dichiarato che a un certo punto tutti si convincono che una certa cosa non può andare che in un certo verso, magari che non è risolvibile, finché non arriva uno sprovveduto (nel senso che non è a conoscenza di questo pensiero dominante secondo cui questa tal cosa non è risolvibile) e la realizza. Si, era Albert Einstein, che in questi giorni si trova egli stesso a rischio tenuta. Vedremo in seguito se a torto o a ragione.


Per chi avesse ancora dei dubbi potremmo citare la celeberrima massima di Arthur Scopenhauer: Una verità passa attraverso tre stadi, all'inizio viene ridicolizzata, poi violentemente avversata. Alla fine viene accettata come autoevidente. Il punto base è però quello di avere la forza di non fermarsi ai primi due stadi e continuare a proporla e a difenderla. Se invece ci uniformiamo al conformismo che vuole valido quanto fino ad allora è stato fatto, nessuna verità, per quanto autoevidente, riuscirà mai a venire a galla.


E lo stesso Einstein è talvolta stato investito dell’ingrato compito dello sprovveduto e si è dovuto scontrare con colleghi inseriti (o che tali volevano accreditarsi) nel mainstream, secondo i quali certi argomenti non erano approcciabili con strumenti diversi da quanto sino ad allora fatto. Quante volte ci è capitato di sentir dire le stesse cose adesso, scoraggiando ipotesi diverse, alternative? Ciò avviene non solo nel campo scientifico, ma anche in tutti gli altri settori dell'attività umana, economia e politica incluse e anche qui spesso si obietta che le alternative non sembrano dare risultati immediati, il che in effetti può anche esser vero, ma non sempre le teorie sul momento accettate come valide, lo sono state fin dal loro apparire e, in ogni caso, se un sentiero di ricerca è promettente, magari ci offre una visione del tutto diversa delle radici del fatto, ben meritando studi più approfonditi che ci permetteranno di uscire da certe secche in cui a volte neanche potremmo immaginare di essere immersi.

Dunque la globalizzazione. Possiamo dire che, come ogni virus, anche questa riesce ad attaccare e sconfiggere solo chi usa gli stessi criteri, come gli esseri viventi sono attaccati da parassiti o predatori che hanno un DNA simile.

Ma se esistesse un essere vivente con qualche diversità cruciale del suo DNA, sarebbe ugualmente attaccato dalle terribili zanzare parassite o piuttosto lo guarderebbero con sospetto ma senza trovare il modo di attaccarlo realmente?

Allo stesso modo nel settore politico, economico e finanziario (e dunque sociale), settori sempre più interconnessi dal crollo del muro di Berlino, visto non tanto come elemento politico ma piuttosto come totem di una potenza alternativa agli Stati Uniti (qualunque fosse il suo credo politico e sociale era comunque fonte di un bilanciamento), chi usa altri metodi di produzione, commerciali, economici e finanziari resterà indifferente ai danni da questa globalizzazione prodotti. Inoltre possiamo porci una domanda: la qualità della nostra vita è aumentata o diminuita da quando siamo entrati nell’area dell’euro e nella globalizzazione? C’è qualche Stato che ne ha tratto giovamento?

Lasciare i mercati liberi di operare è un’idea di cui adesso anche finanzieri d’assalto come George Soros (1) riconoscono trattarsi di errore, reclamando che le autorità (specie in Europa) riprendano al più presto il controllo dei mercati finanziari. Un giorno anche in Italia si avrà il coraggio di discutere di questi argomenti senza il timore di sembrare meno moderni di altri Stati che usualmente prendiamo a riferimento, qualunque cosa facciano, salvo alcune domande che riteniamo scomode, nel senso che metterebbero alla berlina scelte che abbiamo compiuto, probabilmente senza averle ben valutate.

Nell’ingresso nella moneta europea, la Germania è stata l’unico Paese ad avere tratto un vantaggio già dal cambio tra il Marco tedesco e l’Euro (quest’ultimo meno valutato del primo, rispetto al Dollaro Americano, ad esempio), trovandosi quindi nella posizione di essere l'unico Paese fra quelli che sono entrati nella UE a guadagnare nel cambio fra la vecchia e la nuova moneta. Ciò significa che Berlino ha visto migliorare le propria posizione monetaria anche grazie al maggiore potere d’acquisto improvvisamente cadutole sulla testa con il solo e semplice cambio dalla vecchia alla nuova moneta. Vantaggio tedesco pagato da tutti gli altri paesi (meno ricchi della Germania) che sono entrati nella EU. Anche in questo caso abbiamo i poveri che pagano la ricchezza dei più ricchi e che impone loro le regole del gioco (generalmente a favore del più ricco e a sfavore dei più poveri). Certo questo fatto dimostra anche e soprattutto la posizione dominante che la Germania andava ad acquisire rispetto agli altri Paesi che si ritrovavano nella nuova moneta e nell'Europa Unita.

D’altronde quando mai si è visto in un qualunque tipo di azienda che il socio debole possa trattare allo stesso pari del socio ricco? E dicendola tutta, quando mai a un socio debole conviene entrare in società con un socio molto più ricco?

In numerosi casi il socio ricco è più avvantaggiato anche dai media che lo dipingono più ricco e bravo di quanto sia nella realtà e ciò avviene anche con la Germania di oggi verso la quale tutti i media europei si affannano a dipingerla come ricca e sempre più ricca e commercialmente produttiva di quanto essa sia in realtà. Lo abbiamo visto nitidamente con le notizie dell’estate 2011 sul brusco rallentamento del PIL tedesco, ma a leggere meglio i dati della bilancia commerciale tedesca, anche negli anni che vanno dal 1997 al 2007 possiamo vedere che le grandi esportazioni tedesche in Cina altro non sono che una sorta di equivoco: come ci ricorda Alberto Bagnai su Il Manifesto del 22 agosto 2011 negli anni su indicati “il surplus tedesco è aumentato di 239 miliardi di dollari, ma di questi 156 sono stati realizzati in Europa, mentre il saldo commerciale verso la Cina è peggiorato di 20 miliardi (da un deficit di -4 a uno di -24). I giornali dicono che la Germania esporta in Oriente e così facendo ci sostiene con la sua crescita. I dati dicono il contrario”. (2)

L’ingresso in tutta questa serie di nebbie informative, non risparmia nessuno, né a destra, né a sinistra. Con l’aggravante che se qualcuno prova a mettere in dubbio alcuni degli aspetti qui riportati, verrà immediatamente redarguito (ancora da destra e da sinistra) di essere un nostalgico del Comunismo sovietico o un agente di una potenza orientale. Si tratta di semplice conformismo, utile a chi sceglie di informarsi su non più di una o due testate.


Sia a destra che a sinistra abbiamo poi un fenomeno che negli ultimi anni ha preso sempre più piede: la condivisione sempre più stretta delle politiche proposte. Personalmente lo considero il più grande successo della destra negli ultimi 30 anni: aver convinto la ex sinistra a perseguire politiche economiche e sociali di destra, vedendole e presentandole ai propri elettori come inevitabili o, nella migliore delle ipotesi, il male minore (concetto che tanto male ha fatto alla sinistra e alla gente che questa dovrebbe rappresentare).

A quel punto saranno proprio gli ex di sinistra a difendere con maggiore zelo ogni politica economica rientri nel flusso principale che gli enti bancari e finanziari internazionali suggeriscono. Talvolta potrà capitare addirittura che saranno proprio e paradossalmente i leader ex di sinistra a proporre politiche sociali di carattere destrorso (impieghi interinali, ad esempio), come se volessero dimostrare al di là di ogni dubbio la buona fede della loro abiura.

Dimostrare che è giusto quanto si sta proponendo quando anche (e persino) i meno alti dirigenti di partiti e movimenti di sinistra divengono i custodi del pensiero destrorso sul momento dominante (da qualche decennio si tratta del liberismo). La più grande vittoria a cui una parte politica possa ambire: essere difesa dalla controparte che finisce col considerarsi (o credersi, o dimostrare di essere) più professionalmente preparata (della destra attualmente in parlamento) nel propugnare teorie che dovrebbero essere patrimonio della controparte. Un’abdicazione che al momento potrebbe portarci a dover scegliere tra un governo impresentabile da qualunque parti lo si osservi e un’altra parte, quella  che rappresenta il centro sinistra, anche se a leggere i programmi o meglio indizi di programmi, pare preoccuparsi più che altro di seguire dettami tipicamente riconoscibili come sviluppati in ambienti come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea o la banca Goldman & Sachs. Tutto questo non possiamo definirlo sinonimo di politica di sinistra o centro sinistra.

Un altro esempio doloroso è quello che viene a galla quando si parla dei Paesi che stanno subendo il peso maggiore della crisi. si dice che non poteva finire che così dato che Irlanda e Grecia con Spagna e Italia hanno esagerato col debito pubblico e quindi adesso è inevitabile che ne paghino le conseguenze, a partire dalle condizioni di lavoro e dei diritti di lavoratori e pensionati (in particolar modo quelli di basso livello). Però se abbiamo voglia di leggere i dati e non solo le analisi e i commenti che ripetono i maggiori media europei, abbiamo delle vere e proprie sorprese.



Il problema è il debito pubblico?

Ancora da Alberto Bagnai leggiamo che: “Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Ricordiamo che il trattato di Maastricht dice che la sostenibilità di un’unione monetaria richiede il rispetto di soglie sul debito pubblico, ma da un lato sappiamo che prima di questo trattato non risulta che qualche economista avesse affermato l’importanza dirimente del debito pubblico, dall’altro stiamo osservando che nei fatti ciò che determina le crisi all’interno dei Paesi che hanno firmato il trattato in questione, non è il debito pubblico, anche se molto spesso questo è ciò che stampa a politica ripetono". Non è interessante?

Seguiamo ancora Alberto Bagnai che nel suo ragionamento ci spiega quello che, secondo lui, è alla base del problema sopra esposto:

Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi Paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione. Già nel 2006 la BCE indicava che in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna l’inflazione non stava convergendo verso quella dei paesi “virtuosi”. I PIGS erano un club a parte, distinto dal club del marco (Germania, Francia, Belgio, ecc.), e questo sì che era un problema: gli economisti sanno da tempo che tassi di inflazione non uniformi in un’unione monetaria conducono a crisi di debito estero (prevalentemente privato).

Insomma, non sarà che il vero problema non è il debito pubblico ma è il debito privato, ovvero da un lato operazioni scriteriate da parte di banche che sempre più spesso abbracciano la finanziarizzazione dell'economia, anch'esse quindi abdicando in parte sempre maggiore alla propria attività storica (il debito irlandese é un buon esempio in proposito) e dall'altra una bilancia dei pagamenti troppo sbilanciata verso le importazioni con le esportazioni che non riescono mai a superare le importazioni e quindi peggiorano la nostra esposizione verso l’estero? Ma per risolvere questo problema non c’è santo che tenga: le imprese devono investire in ricerca e migliorare la produzione, sia per offrire prodotti in linea con l’interesse dei consumatori che in qualità dei prodotti offerti. Se guardiamo ai leader internazionali su vari mercati, vediamo che quelle aziende che hanno lavorato con questo metodo risentono assai meno della concorrenza della crisi internazionale.

Due casi: Apple che coi suoi computer e prodotti tecnologici sta procedendo nettamente meglio della sua concorrenza (quella stessa che qualche anno fa ridicolizzava il marchio della mela morsicata) e il gruppo automobilistico Volkswagen. In entrambi i casi la clientela non acquista Apple o Vw per il prezzo basso, ma piuttosto perché vogliono usare i loro prodotti, ai quali riconoscono ottime prestazioni, avanzati studi di ricerca, bellezza intrinseca dei prodotti, usabilità, capacità di risolvere problemi meglio dei loro concorrenti. La qualità ha certamente un costo, ma sta ripagando molto di più di quanto chiede. Certo servono menti capaci a individuare il fulcro del problema e in grado di trovare la soluzione.

Condurre un Paese non è la stessa cosa della conduzione di un’azienda tecnologica o automobilistica, ma quel che hanno dimostrato di possedere alcune aziende è la mente dei propri dipendenti capace di interpretare un mercato meglio di altri, magari uscendo dal flusso principale seguito dai propri concorrenti, ovvero quelli che fanno la stessa loro attività. Da questa prospettiva è giusto quel che dovrebbero trovare i politici di molti Paesi democratici in tutto il mondo, anziché seguire acriticamente ciò che altri hanno già dimostrato che non funziona. Troppi politici hanno ormai perduto il senso della critica e paradossalmente preferiscono continuare a operare nel credo neoliberista che dal Cile in avanti ha fatto precipitare nel baratro tanti altri Paesi, piuttosto che cercare delle soluzioni diverse e fuori dal coro.  Qual è il motivo di tanto conformismo acritico e autolesionista?

Uno dei motivi, potrebbe essere quello di convincere la pubblica opinione, come si chiamava un tempo, che per risolvere il problema della mancanza delle pesche, bisogna comprare le mele. Ovvero convincere che per risolvere il problema del debito pubblico (che non è il problema), l’unica strada sono i tagli alla spesa pubblica (che colpiscono i più deboli), le vendite (troppo spesso - svendite -) del patrimonio statale e un dimagrimento generale delle uscite dello Stato (che spesso dà lavoro e quindi serve eccome). Solo che quello non è il problema e quindi queste non sono le soluzioni. Per contro, mai che si parli di una politica fiscale come quella che viene fatta nei paesi europei o negli Stati Uniti (in questi casi ci si distingue da chi normalmente si dice di voler seguire), o che si cerchi di vedere di migliorare il modo di lavorare delle imprese esportatrici, o che la si smetta di praticare politiche che azzerano le capacità di spesa del ceto medio e popolare da sempre motori dell’economia nel mondo: insomma rivedere la redistribuzione è fondamentale.

Dal mio punto di vista ci sarebbe un altro aspetto interessante: ricostruire tutta quella rete di economia locale che ci ha condotto fino alle soglie del 2000 e che poi a un certo punto abbiamo deciso di mollare improvvisamente per immolarci nel credo liberista della globalizzazione. Vediamo però che chi ha deciso di lasciare in essere (con gli aiuti necessari da parte della parte pubblica, ma anche con l’ingegno tipico di questo tipo di attività - noi spesso li chiamavamo artigiani) adesso non vive la crisi pesante, oscura nelle prospettive e lacerante che vivono le nostra zone. Almeno ne sta uscendo fuori.

Sono dell’idea che è ancora possibile e doveroso riprendere in mano le fila di questa economia, creando reti locali autosufficienti per quanto possibile e che solo dopo aver assicurato la loro sopravvivenza si potranno spingere verso l’esterno, mentre è sempre più chiaro che questo tipo di globalizzazione è stato creato per favorire solo ed esclusivamente i grandissimi gruppi. Cose che l’Italia non ha mai avuto, casomai è stata terra di conquista da parte di questi gruppi, a cominciare dalle esperienze dell’ENI e di Mattei negli anni ’50.

Non dimentichiamo un altro tipico problema che sono le pensioni: quando si parla di riforme, è bene ribadire che in realtà si intende agire sempre a sfavore delle fasce più indigenti e questo è avvenuto con governi delle varie parti politiche che si sono succedute negli ultimi 50 anni. Qualcuno lo denuncia? Pochi, sia dentro che fuori dal Parlamento.

Dunque le proposte e le azioni che gli schieramenti rappresentati in Parlamento offrono sono simili. Bisogna dire che è un sistema condiviso in larga parte dell’Occidente, come se tutti i nostri rappresentanti (perché questo sono, non va dimenticato) fossero figli di culture politiche simili, derivanti da frequentazioni di scuole politiche magari di alto e altissimo livello e prestigio internazionale ma di ispirazione politica unica.

Già da questo si capisce che c’è qualcosa che non torna e da questo non è esclusa la lotta di classe che c’è e non è mai finita, anche se abbiamo dovuto aspettare che ce l’abbia confermato un miliardario americano, Warren Buffet, con buona pace di vari esponenti della ex sinistra italiana che da anni continuano a negare questa evidenza. Si tratta di un errore di valutazione o di altro? In ogni caso si tratta di un grave errore, da non perdonare a un dirigente politico, a cui al contrario si chiede visione ampia della situazione nazionale e internazionale.

Quando torneremo a chiamare le cose col loro nome? Torneremo ad avere una scuola di pensiero indipendente?


 

 

 

Note:

1) How to stop a second Great Depression di G. Soros http://blogs.ft.com/the-a-list/2011/09/29/how-to-stop-a-second-great-depression/?ftcamp=crm/email/2011929/nbe/ExclusiveComment/product#axzz1ZM8dyK71

2) Germany's Import and Export Indicators and Statistics at a Glance (2010)

http://www.economywatch.com/world_economy/germany/export-import.html

Total value of exports: US$1.337 trillion

Primary exports - commodities: machinery, vehicles, chemicals, metals, manufactures, foodstuffs, textiles

Primary exports partners: France (10.2 percent of total exports), US (6.7 percent), Netherlands (6.7 percent), UK (6.6 percent), Italy (6.3 percent), Austria (6 percent), China (4.5 percent).

Total value of imports: US$1.12 trillion

Primary imports - commodities: machinery, vehicles, chemicals, foodstuffs, textiles, metals

Primary imports partners: Netherlands (8.5 percent of total imports), China (8.2 percent), France (8.2 percent), US (5.9 percent), Italy (5.9 percent), UK (4.9 percent), Belgium (4.3 percent), Austria (4.3 percent), Switzerland (4.2 percent).

Ultimo aggiornamento Martedì 20 Novembre 2018 18:35