
The Technological Republic come invito alla costruzione della nuova élite tecnologica occidentale.
(da un dialogo tra Flavio Gori e ChatGPT)
Quando due dirigenti di Palantir, azienda co-fondata da Peter Thiel e legata a progetti sensibili nel campo della difesa e dell'intelligence, pubblicano un libro che parla del destino tecnologico dell'Occidente, l'operazione potrebbe apparire autoreferenziale. The Technological Republic, scritto da Alexander Karp e Nicholas Zamiska, non si presenta come un trattato sistematico, ma come una raccolta discontinua di osservazioni, riflessioni e aneddoti. Tuttavia, questa forma apparentemente frammentaria sembra del tutto coerente con lo scopo implicito dell'opera.
Ma forse non è un difetto: non vuole spiegare, vuole orientare — e soprattutto stimolare.
Il lettore ideale non è il cittadino generico, bensì colui che ha già una certa familiarità con il mondo tecnologico e ne intuisce il potenziale strategico. Il libro non cerca di convincere le masse, ma di selezionare interlocutori pronti a raccogliere un invito implicito: contribuire alla costruzione di una nuova forma di alleanza tra Stato e innovazione. Non è un manuale operativo, ma un richiamo destinato a chi potrebbe trasformarsi da lettore in collaboratore.
Uno dei passaggi più lucidi del libro è la critica interna rivolta alla Silicon Valley. Secondo gli autori, l'élite tecnologica americana ha progressivamente abbandonato la sua responsabilità storica, rifugiandosi nella costruzione di app superficiali, destinate a soddisfare bisogni effimeri e a generare denaro su denaro. Mentre il mondo affronta sfide sistemiche, gran parte dell'innovazione si dedica a ottimizzare il consumo individuale. In questo scenario, software e piattaforme potenzialmente cruciali per la sicurezza e la resilienza nazionale vengono trascurati o lasciati ai margini.
La posta in gioco, anche se non esplicitamente tematizzata in termini geopolitici, è evidente: la leadership tecnologica degli Stati Uniti è oggi messa in discussione. Non si tratta solo di competizione economica, ma di scrivere — o subire — l'architettura futura del mondo. Senza una "repubblica tecnologica" — vale a dire un ordine condiviso tra ingegno tecnico e visione strategica — l'Occidente rischia di vivere dentro il sistema operativo scritto da altri.
Il titolo del libro, più filosofico che istituzionale, non definisce un assetto costituzionale alternativo, ma piuttosto un archetipo: una nuova alleanza tra competenza tecnica, responsabilità morale e visione politica. Tecnologi, sviluppatori, strateghi e imprenditori sono chiamati a superare la frammentazione del presente per dar forma a un progetto collettivo capace di affrontare le sfide del secolo.
Lettura consigliata non solo per quello che dice, ma per quello che potrebbe (e vorrebbe) stimolare.
Ma non è tutto. Dietro le righe del libro si intravede una domanda ancora più radicale: e se la repubblica tecnologica del futuro non fosse più solo un progetto occidentale? In uno scenario di accelerazione convergente, Stati Uniti e Cina — oggi rivali — potrebbero avvicinarsi proprio sul terreno della governance algoritmica e dell’efficienza tecnocratica, trovando un linguaggio comune nei sistemi di controllo, nella gestione dei dati e nella stabilità sistemica. Non per affinità ideologica, ma per affinità funzionale. In questo quadro, l’Europa rischia di diventare un continente normativo e riflessivo, ma sempre più marginale nelle architetture concrete del potere globale.
La democrazia come viatico alla dittatura
Oggi, la parola democrazia è diventata un mantra vuoto, una parola totem che viene invocata da élite irresponsabili per legittimare il proprio potere, mentre il contenuto effettivo della sovranità popolare è stato svuotato. Lungi dall’essere un argine contro le derive autoritarie, la democrazia procedurale che viviamo è diventata la forma più subdola e perfetta di passaggio verso una dittatura postmoderna.
Non è una dittatura di tipo novecentesco — con stivali, manganelli e propaganda palese — ma una dittatura algoritmica, normativa e culturale, in cui:
- la scelta politica è ridotta a variazioni sul nulla (partiti intercambiabili, nessuna visione),
- la volontà popolare è aggirata tramite organismi sovranazionali e tecnocrati irresponsabili,
- il dissenso è delegittimato in nome della “disinformazione”,
- la partecipazione è disinnescata da sistemi elettorali calibrati sull’astensione,
- e, sempre più frequentemente, il dubbio è criminalizzato.
Il cittadino non è più chiamato a interrogare il potere, ma a obbedire a un sistema di indicazioni univoche, diffuse e ripetute dai media di ispirazione governativa e dalle categorie professionali che vi si allineano senza esitazione. I professionisti che si permettono di esprimere perplessità vengono spesso emarginati, se non addirittura estromessi dal proprio albo.
Come possiamo ancora parlare di democrazia?
Quella che ci viene proposta come forma avanzata di civiltà si rivela invece la maschera perfetta della sua antitesi. Per questo motivo, parlare oggi di “superamento della democrazia formale” non significa flirtare con l’autoritarismo, ma rifiutare la farsa di un sistema che si finge libero mentre costruisce silenziosamente i presupposti della tirannide algoritmica.
Occorre abbandonare le ideologie stanche del Novecento e costruire governance trasparenti, chiare, professionalmente ineccepibili, dove il dubbio torni a essere accolto come un atto di cultura e di responsabilità sociale. Solo una società che sa coltivare il dubbio può sperare di non diventare schiava delle proprie illusioni.
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Bibliografia:
The Technologic Republic di Alexander Karp e Nicholas Zamiska - Vintage Digital in versione kindle - Bodley Head in edizione cartacea