Lo Scrittoio

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La Mia Isola: La nuova vita prende forma e colore

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Capitolo 8

 

Sull’Isola di Aran, la primavera si veste di mille colori e i ricordi dell’inverno si dileguano, per lasciare il posto alla stagione della speranza e della rinascita.

Mi sento perfettamente in sintonia con la natura e le energie sembrano ricaricarsi ogni giorno che passa.

Superando gli ostacoli si diventa più forti, e la forza ci permetterà di affrontare tutte le avversità.

 

13 aprile 2001

La passione per l’agricoltura non mi è passata, nonostante, il mio esperimento di coltivazione nell’orto sia fallito miseramente. Non erano, ovviamente, dello stesso avviso i coniglietti, che si sono sgranocchiati la lattuga, e neppure Filly, la “cavallina storna|” che si è mangiata il resto.

Nell’orto, c’è una devastazione generale. Ci riproverò l’anno prossimo, quando riuscirò ad organizzarmi meglio, e trovare il modo di proteggere i germogli.

Filly oggi non si è presentata. Un po’ già mi manca!

Mi sento nell’umore giusto di provare a dipingere ad acquerello. In uno dei cartoni, tra i libri, dovrebbero esserci i colori e la carta speciale!

Aprendo una scatola, trovo delle vecchie fotografie, chiuse in un cofanetto.

Qui ero in vacanza in campeggio. Agosto 1985. I bambini sono seduti al tavolo e giocano spensierati. Lo erano sempre quando eravamo in vacanza! Io ricordo solo tristezza.

Eccomi in inverno al parco di Monza. Deve essere stato Dicembre del 1989, poco dopo essere stata assunta dalla DC a Sesto. Anche qui non sembro di buon umore.

E mi sembra di sentire la voce della mamma, carica di disappunto, che mi accusa di non essere mai contenta. Era vero?


Decido di rimettere a posto le foto. Non mi va di ricordare il passato. Riponendole, me ne cade una. La riprendo in mano e la volto per controllare di che cosa si tratta. Agosto 1991. Rabbrividisco! E’ incredibile...


Era il 14 Agosto del 1991. Per volare da Milano a Dublino bastarono poco più di due ore, ma il bus che da Dublino ci portò a Galway ne impiegò ben quattro. Eravamo già sconvolti di stanchezza e Daniela si era addormentata sulla mia spalla. Non avevo prenotato alcun alloggio a Galway e in questo periodo dell’anno non è così semplice trovare un accomodamento decente a prezzo contenuto. Una cosa era comunque evidente: itinerare senza un programma preciso, con tre adolescenti al seguito, era una pura conferma della mia incoscienza, anche se mi sentivo più che sicura che ce la saremmo cavata.

Il fatto era uno solo: avevo prenotato per due notti una stanza sull’Isola di Aran e dovevamo farcela!

Il mio passo sicuro verso l’Ufficio Turistico, con un sorriso stampato sul mio panico celato, rassicurò i ragazzi che mi seguirono senza protestare.

- Su, svelti ... -  ci disse l’impiegata della Biglietteria  - sbrigatevi che ce la fate! - . E così fu. Una volta seduti su quel bus nulla poteva più impedire il nostro imbarco, perchè il traghetto aspetta sempre il “carico” prima di partire!

Arrivati a Rossaveal non fu neppure necessario chiedere informazioni: non c’era che un molo e un battello in attesa. A carico effettuato, il traghetto prese immediatamente il largo e nel giro di dieci minuti ci ritrovammo in oceano aperto. Le onde cominciarono ad abbattersi con violenza contro la nostra imbarcazione. I ragazzi saltellavano divertiti cercando di restare in equilibrio senza appoggiarsi, io, al contrario, ben aggrappata ad un sedile, pallida come un cadavere, non riuscivo neppure ad aprire gli occhi per paura di rigettare brutalmente la colazione. Man mano che ci avvicinavamo alla costa, comunque, l’ondeggiare si fece meno brutale finchè attraccammo.

Al molo una fila di mini-bus e qualche carrozza trainata da cavalli, caricarono tutti i passeggeri per i loro vari destini, ma non noi. Mi assunsi le mie responsabilità di leader del gruppo e decisi che avevamo bisogno di una boccata d’aria e così ci incamminammo verso la nostra Locanda senza attendere oltre. L’ufficio turistico era già chiuso e in verità non avevo proprio la minima idea di dove quel posto si trovasse. Così, chiedemmo indicazioni a un ragazzo che stava ripulendo un pezzo di spiaggia.  - Non è lontano -  disse con uno strano accento  - circa 3 miglia! E’ una bella passeggiata ... -  poi riprese il suo lavoro. Dopo qualche minuto, mentre ci allontanavamo con passo spedito, il ragazzo si appoggiò con l’avanbraccio sul manico della scopa in fase di riposo momentaneo e urlò verso di noi  - a proposito, io mi chiamo Genus .... ci rivedremo -  e poi scomparve in un viottolo, lasciando la scopa vicino ad un muretto.

Non fu facile far credere ai ragazzi che camminare era stata la scelta migliore, ma riuscii a convincerli che questo avrebbe comunque riempito i nostri polmoni di ossigeno, e aumentato il nostro appetito in vista di una probabile cena gustosa. Dopo circa due ore di cammino finalmente avvistammo la  “ Locanda promessa” . La porta era aperta ed entrammo tirando un sospiro di sollievo. Nessuna cena ci attese, ahimé, perchè non avevo pensato a prenotarla, ma come toccarono il letto, i ragazzi si addormentarono di botto. Sfilai loro le scarpe e li lasciai riposare vestiti com’erano. Alla fine ce l’avevamo fatta. Sapevo di avere chiesto loro un po’ troppo questa volta, ma sorridevo orgogliosa al mio coraggioso equipaggio dormiente.

La mattina ci precipitammo a far colazione. Ci vollero quattro fette di pane e due tazze di caffè prima che i ragazzi mi rivolgessero la parola. Dopo l’abbondante colazione, mentre i ragazzi si lavavano i denti, frugai nello zaino per trovare la mia piccola macchina fotografica ‘usa e getta’. Ero certa di averne portata una con me e frugai ovunque nel bagaglio vario, ma senza successo. Non volendo comunque perdere altro tempo, affrancai il nodo degli scarponcini e allacciai la giacca a vento ben sotto il mento. Verificai che tutti avessero fatto lo stesso e partimmo come per una grande avventura!

Era una giornata di sole e decisi che avremmo raggiunto le scogliere di Dun Aengus. Non conoscevo la strada ma non poteva essere troppo difficile, bastava puntare in direzione contraria rispetto alle spiagge, ovvero verso nord ovest. Così ci incamminammo verso il primo sentiero che incrociammo e che puntava verso quella direzione. Il sentiero divenne sempre più stretto e poi scomparve. Proseguimmo camminando nell’erba sempre più alta, finchè decisi che era il momento di arrenderci, tornare indietro, e cercare un’altra traccia. Nel frattempo pensai fosse bene fermarci per qualche minuto a riposare.

Da dietro un muretto a pochi metri, una voce ci salutò  - Dia duit -  disse con simpatia. Era Genus. Si complimentò perchè avevamo fatto tanta strada ed ora le scogliere non erano lontane. I ragazzi tirarono un sospiro di sollievo: era evidente che non si fidavano più molto di me come guida. Genus ci consigliò di seguirlo e lo facemmo con piacere.

-                Prima di arrivare a Dun Aengus -  ci propose,  - potremmo passare dal Worm Hole (Buco del verme)... è un luogo magico e la marea è ora al punto giusto per dare il giusto effetto! -   - Quale effetto? -  chiesi io. Rispose  - gli antichi ci andavano a meditare, e loro sì che erano saggi, sai? -

-                Vada per il buco del verme -  dissi tra me e me. Avevamo una giornata intera davanti a noi e non sembrava voler piovere per il momento. Genus sembrò leggere il mio pensiero e mi disse  - andiamo, il tempo è così bello .... -  . Rassicurata decisi di accettare l’invito.

Camminammo tra l’erba ancora per pochi minuti, poi scavalcammo il primo muretto.

Dopo pochi minuti un secondo muretto e poi un terzo. Davide e Gaia erano divertiti e Daniela canticchiava seguendoci tranquilla. Beh, se loro stavano a quel gioco, che diritto potevo avere io di lamentarmi?

Ecco che Genus si arrestò improvvisamente, si voltò verso di noi e portò il dito alla bocca  - Ssst -  ci ammonì ed ottenne la nostra attenzione ed il nostro silenzio immediatamente. A quel punto cominciammo ad avvertire il rumore sordo delle onde contro le scogliere. Era come il suono di un enorme  Bodrain , lo strumento a percussione tipico, il cui suono si avvicina incredibilmente al battito del cuore umano! Restammo incantati ad ascoltare e poi proseguimmo verso la meta ormai vicina. Genus ci raccomandò di non correre e di stare vicini  - il vento qui non scherza -  ci disse  -  non sarebbe la prima volta che spazza via qualcuno -  e divenne serio. Ci avviammo così cauti verso il bordo della scogliera, ci sedemmo su una roccia che formava una specie di panca, a pochi metri dal precipizio e girammo i nostri occhi verso ovest. Lo spettacolo era emozionante. Da quella posizione potevamo osservare comodamente lo strato di scogliera sottostante, nella quale una “mano gigante” sembrava aver intagliato una enorme buca di forma perfettamente rettangolare. Le onde entravano dal fondo della buca per poi ributtarsi nell’oceano.  - Il Buco è collegato con l’oceano, vedi? -  disse mentre indicava col dito verso il basso  - forse in un’epoca lontana un mostro come quello di Lochness viveva là dentro - . Poi continuò  - questo è il punto in cui gli antichi si sedevano e meditavano -   - che tipo di meditazione -  chiesi incuriosita, mentre i ragazzi non seguivano più la nostra conversazione per mancanza di traduzione da parte mia. Genus li guardò e poi cominciò a parlare in un italiano stentato  - non parlo italiano da molto tempo -  continuò  - ma ci posso provare! - . Improvvisamente fummo tutti e quattro attratti da quelle parole. Allora Genus proseguì  - ti siedi qui e chiudi gli occhi immaginando le onde che ti entrano nell’anima -  e tutti chiudemmo gli occhi.  - C’è un mostro dentro tutti noi, e solo noi stessi possiamo tenerlo a bada. In questo luogo si impara questo: a conoscere il male che c’è in noi ed inattivarlo - . Il momento ci parve magico, un po’ per la sorpresa di un abitante di Aran che parlasse italiano così correttamente, un po’ per il paesaggio incantato e selvaggio e, non da meno per l’avvistamento di un delfino che emergeva e si rituffava laggiù all’orizzonte, verso ovest.

L’emozione ci pervase. Anche se cercavamo di contenerla, i nostri occhi si erano visibilmente inumiditi. Genus sorrise compiaciuto e con un battito di mani ci esortò:  - proseguiamo ora! -  e, dopo che ci fummo alzati ci voltò le spalle, poi fece ruotare il braccio destro da indietro in avanti invitandoci a seguirlo  - abbiamo ancora tanta strada da fare oggi! -  disse  - e si incamminò verso la parte più alta delle scogliere, dove in epoca remota imprecisata, ovvero tra il 2000 e il 4000 a.C., un re fece costruire un forte di forma semicircolare in pietra noto col nome di Dun Aengus.   Dal Forte si godeva un panorama mozza fiato e il cielo era limpido e azzurro.  - La prossima fermata è l’America! -  disse Genus compiaciuto, puntando verso l’oceano,

- sempre se non vogLiamo considerare l’isola di Tir na n’Og, naturalmente! - .  - Tir ...!? -  chiese Gaia! Come una guida esperta, Genus si aspettava questa domanda. Ci fece cenno di accomodarci sul banco di roccia al centro del forte, e cominciò a raccontare la leggenda. Tir na n’Og significa terra dell’eterna giovinezza ed è una isola in cui chi mette piede ferma il tempo e non invecchia più né muore. A questo punto Davide non voleva più muoversi di lì, sperando di poter avvistare la leggendaria isola! Si fece convincere quasi subito, però, dalla promessa di Genus di altre leggende legate ad altri luoghi.

Tornando da Dun Aengus per un altro sentiero, ci trovammo a questo punto ad un bivio.  - A sinistra -  disse Genus  -  andiamo a visitare il forte di Dun Eoghanachta! -

Prendemmo una strada sterrata che porta un po’ in collina, per poi scendere diretta verso il mare. All’incrocio con la strada principale, si poteva intravvedere una splendida spiaggia.  - Quella è la spiaggia di Kilmurvey -  gridò Genus indicando verso destra,  - ma noi giriamo di qui -  e svoltò verso sinistra.

Dopo pochi minuti sul lato sinistro della strada apparve un altro sentiero ed è lì che ci dirigemmo. Scavalcammo un muretto e ci inoltrammo nell’erba fino a raggiungere un grande forte circolare in pietra: Dun Eoghanachta. Le pareti erano alte circa tre metri e profonde altrettanto. Verso est le pietre erano crollate, aprendo una breccia di passaggio. Ci stavamo dirigendo verso l’ingresso, quando un gatto nero ci attraversò la strada. Genus si fermò per lasciarlo passare e noi facemmo altrettanto.  - Tra voi qualcuno avrà molta fortuna, ragazzi -  e proseguì  - il gatto nero è il guardiano del tesoro sepolto in questo forte, e se lui ti attraversa la strada è un buon segno, davvero! -  . Non opponemmo alcun commento a questa affermazione ma noi tutti conoscevamo quanto in Italia un avvenimento di quel tipo avrebbe certo fatto inorridire i più superstiziosi!

Al centro del forte il vento sembrava essersi calmato  - ora ci meritiamo un po’ di riposo, cosa ne dite? -  a questa domanda non rispondemmo neppure, ma eravamo tutti d’accordo. Erano le quattro del pomeriggio, ormai, ed eravamo piuttosto affamati. Genus ancora una volta mostrò una saggezza fuori dal comune: estrasse da una bisaccia un pezzo di formaggio ed una borraccia con dell’acqua fresca. Ne offrì un po’ per ciascuno e ne lasciò un pezzetto su una pietra sporgente verso est  - questo è per il gatto -  disse  - è sempre così affamato! - , poi si sedette accanto a me, chiuse gli occhi e non parlò più per qualche minuto.

Io avrei voluto porre molte domande a Genus. Sapere qualcosa di più su ogni pietra incontrata, ma anche sulla sua storia personale.Conoscere il perchè della sua conoscenza della lingua italiana. Ogni volta che cercavo di spostare il discorso su questioni private, però, Genus deviava la conversazione su qualcos’altro. Così, decisi di lasciar perdere, godermi questa guida speciale e, attraverso il suo aiuto, cominciare ad amare profondamente questa terra.

Ritornammo sulla strada principale e Genus ci annunciò di avere un impegno a cui attendere, ora. Ci guidò fin oltre la prima curva e poi con aria un po’ imperiosa disse  - ora è meglio che tornate alla Locanda a farvi una doccia -   - per oggi ne avete avuto abbastanza, che ne dite? - . Io avrei voluto dire no, ma i ragazzi dicevano  - sì, sì -  con ogni cellula del loro essere e riflettendo pensai fosse saggio seguire questa direttiva ancora una volta.

Avremmo dovuto prendere il traghetto il giorno successivo nel primo pomeriggio. Mi resi conto che fosse impossibile visitare le altri parti dell’isola, quella all’estremo ovest e quella ad est, però qualche ora utile c’era e chiesi a Genus qualche consiglio, prima che si congedasse da noi.

- Io domani non ci sarò -  rispose,  - ma un mio parente passerà con il suo carretto trainato da un pony bianco a prelevarvi domattina dopo colazione, va bene? Sa lui cosa vale la pena visitare prima di accompagnarvi al porto, non preoccupatevi! -  poi mi porse la mano in segno di saluto e disse  - Tog a bog è, Rosaria -  e se ne andò a passo veloce nella direzione opposta, senza voltarsi.

Entrando nella locanda, mi imbattei in Sean, l’anziano proprietario. Avevo memorizzato due frasi di saluto che Genus ci aveva rivolto in gaelico in quella giornata e ne chiesi il significato a Sean.  - Dia duit -  voleva dire Buon giorno e  - Tog a bog è -  Prenditela con calma! Sorrisi soddisfatta: furono le prime due frasi in gaelico che imparai e mi riproposi di voler approfondire in seguito quella lingua, il cui suono ricordava la magia di un mondo passato ma ancora così presente in quella fantastica isola in cui il tempo si era misteriosamente fermato!

Il mattino seguente mi svegliai all’alba. Il vento fischiava attraverso le fessure di una piccola finestra posizionata alle mie spalle, così decisi di provare a sistemarla. Con aria assonnata mi alzai dal letto per poter meglio guardare all’esterno. Sul davanzale interno della finestra, ben visibile a chiunque, dati i colori sgargianti della sua custodia di cartoncino, apparve la macchina fotografica. Come avessi potuto non vederla la mattina precedente, non so, ma era comunque inutile lamentarsi. Allora decisi di scattare una foto da lì. La veduta consisteva in due piccole case al di là di un muretto, certo nulla di interessante rispetto a quanto avevamo visto il giorno precedente. Quante foto avrei potuto fare! Inutile rammaricarsi ora!

Dopo colazione, Sean ci annunciò che Pauric ci aspettava all’ingresso con il suo carretto. Impacchettammo tutte le nostre cose. Mi accertai di non aver lasciato nulla dietro a noi e, dopo aver pagato Sean e averlo ringraziato, ci precipitammo fuori. Pauric aveva un viso rubicondo e due occhi piccoli ma color del cielo.

Sfortunatamente, come tutte le persone anziane dell’isola, non conosceva molto bene l’Inglese, capimmo solo che ci avrebbe portato in un luogo chiamato  - le sette chiese - , per poi riportarci al traghetto percorrendo la strada bassa.

Comodamente seduti sui sedili del carretto, transitammo nuovamente dalla spiaggia di Kilmurvey, poi, sempre percorrendo la strada più vicina alla costa, avvistammo diverse splendide casette caratteristiche con il tetto di paglia. Ad un certo punto Pauric prese una stradina sulla nostra destra, che terminava sul mare. A metà si fermò all’ingresso di una specie di sito monastico in rovina e ci lasciò scendere. Gesticolando ci fece intendere che avevamo circa mezz’ora di tempo. Lui sarebbe sceso fino al mare per girare il carretto e poi ci avrebbe raccolto al suo ritorno.

Evidentemente ci trovavamo nel luogo chiamato  “ le sette chiese” e, a dire il vero, mezz’ora mi parve comunque eccessiva per quella visita. Mentre i ragazzi raccoglievano e gustavano alcune more che crescevano nei rovi oltre il muro di cinta del sito, un gruppetto di turisti si affollò vicino ad una epigrafe e io li seguii sperando di poter strappare qualche spiegazione. Ebbi successo, in quanto, ad un certo punto, uno di loro cominciò a leggere a voce alta qualche frase da un libro che teneva in mano:  - 7 ROMANI -   lesse  - questa epigrafe misteriosa, di cui nessuno conosce il significato vero, forse vuole indicare che questo sito monastico fu abitato nel V secolo da alcuni monaci provenienti da Roma. Questo è possibile, dato che a quell’epoca quest’isola era nota per attirare aspiranti monaci da molto lontano. Oltre 2000 alunni erano dislocati su un’area relativamente piccola, forse esistevano moltri altri siti come questo, oggi scomparsi. Sant’Enda era il monaco che qui fondò la scuola di monachesimo e si dice fosse estremamente severo, tanto da punire con l’esilio chiunque non rispettasse le sue regole. Sant’ Enda aveva la sua base a Killeany, esattamente dalla parte opposta dell’isola. Si dice che in questo sito invece vissero per qualche tempo alcuni monaci romani, forse, appunto, sette. Un episodio simpatico e triste allo stesso tempo è legato ad un aspirante monaco romano chiamato Genus. Era poco più di un ragazzo quando venne punito da Sant’Enda per avere fatto uno scherzo agli altri monaci, aggiungendo troppo sale alle loro minestre che, secondo le regole, dovettero essere comunque terminate fino all’ultima goccia. Quando Sant’Enda conobbe il fatto, Genus venne punito con l’esilio e presumibilmente, durante la traversata sulla piccola barca detta ‘curragh’, non raggiunse mai l’altra sponda -

A quelle parole mi sentii girare la testa e dovetti appoggiarmi ad una pietra tenendo gli occhi chiusi per qualche minuto. Quando li riaprii i ragazzi erano intorno a me e mi esortavano a riprendermi e risalire velocemente sul nostro mezzo di trasporto.  Mentre conduceva rilassato il carretto, sussurrando di tanto in tanto al cavallo comandi in una lingua a noi incomprensibile, Pauric cantava un lamento antico simile ad una ninna nanna. Questo ci ammutolì per tutto il tragitto: non chiesi mai ai ragazzi quale fosse stata la loro sensazione in quel momento, ma per me fu come un dolce addio o, come poi si dimostrò dieci anni dopo, un arrivederci!


Ora ricordo bene. La foto fu l’unica scattata quando venni sull’isola con i ragazzi. Stavamo in un B&B qui vicino.  Durante quella gita, non scattai alcuna foto, perche’ non riuscivo a trovare la macchina fotografica, che misteriosamente apparve a fine giornata. Poco prima di partire, pero’, dalla finestra della stanza, fotografai due case, senza sapere che una delle due, sarebbe stata la mia residenza... ben dieci anni dopo!

Destino o coincidenza?

Decido di tenere quella foto “storica” da una parte. Per ora, decido di continuare a cercare i colori.

Trovo tutto l’occorrente per dipingere, lo porto sul tavolo vicino al camino, e comincio a disegnare scorci di Aran, cosi’ come la mente mi ispira!

E’ la prima volta, da quando sono ad Aran, che alle due di notte sono ancora sveglia.

Questa volta non per preoccupazioni, per fortuna!

Ho terminato alcuni lavori. Domani li porto alla Gallery e provo ad esporli. Non si sa mai, che li possano vendere.

 

 

Nota: La parte in corsivo del presente capitolo è stata ipubblicata su La Stampa il 31 Gennaio 2004, visibile a questo indirizzo: http://www.archiviolastampa.it/component/option,com_lastampa/task,search/mod,libera/action,viewer/Itemid,3/page,1/articleid,0183_04_2004_1397_0001_1303344/anews,true/).

Ultimo aggiornamento Giovedì 12 Marzo 2020 14:59