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Lo spostamento dei giganti Moai dell'Isola di Pasqua: introduzione all'ipotesi dell’ing. Pavel Pavel

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Più remota della Groenlandia, più solitaria della penisola Kamchatka in Siberia, più isolata dell’arcipelago delle Pitcairn. Nel mezzo dell’oceano Pacifico, a  2000 km dalla costa cilena, c’è un’isola di 163 chilometri quadrati e neanche 4000 abitanti. I suoi nomi originali sono Rapa Nui, Mataki-te-rangi e Te Pito o te Henua, ma a noi suona certamente più familiare quello attribuitole dall’esploratore olandese Jakob Roggeveen, che vi si imbatté nel 1722: isola di Pasqua.

 

Ad attrarre l’attenzione di tanti studiosi, archeologi, etnografi, turisti e non solo, sono senza dubbio le gigantesche statue Moai che la dominano. Troppe le domande che la riguardano, e troppo poche quelle definitivamente risposte.

Innanzitutto, cosa rappresentano i Moai? L’ipotesi che fossero i guardiani dell’isola era, fino a qualche anno fa, tra quelle più accreditate, se non fosse per il fatto che i Moai dell’Ahu Tongariki - una delle piattaforme restaurate e più ricche di statue, ben 15 - danno le spalle all’oceano e sono rivolti verso il centro di questa terra emersa. Da quali pericoli avrebbero dunque dovuto proteggere? Data la posizione, sarebbe stato più difficile scappare dall’isola piuttosto che entrarci. Più plausibile, allora, l’ipotesi che essi rendano omaggio ai personaggi delle tribù Hanau Eepe, le Orecchie Lunghe, che nel corso di sanguinarie battaglie contro i loro antagonisti – le Orecchie corte – conquistarono il dominio di Rapa Nui e la governarono a lungo. Nonostante il loro successo, le Orecchie Lunghe iniziarono probabilmente un eccessivo sfruttamento delle risorse naturali che lentamente condusse l’isola verso il declino.

Come sono stati costruiti? Su questo punto, si hanno degli indizi che portano a pensare che il processo sia stato pressappoco il seguente: sulle pendici del vulcano Rano Raraku, cantiere esclusivo della creazione dei Moai, gli scultori prima selezionavano la forma complessiva modellando faccia e petto, poi si concentravano sui fianchi, le lunghe orecchie e le mani dalle dita affusolate e incrociate sulla pancia. Le statue potevano essere scolpite nelle posizioni più svariate – con la testa rivolta in su, in giù o di lato – in base alla soluzione più conveniente. Mano a mano il materiale di scarto veniva rimosso lateralmente fino a che solo la parte posteriore della statua rimaneva congiunta alla roccia madre, e quando questa connessione si rompeva, il Moai veniva liberato, fatto scendere dal pendio e smussato sul retro. A questo punto la statua era praticamente già in piedi.

E qui sorge la domanda successiva: come sono stati trasportati? Considerando che il percorso più lungo che hanno dovuto affrontare è stato di 16 km e che la distanza media non è comunque al di sotto dei 4 km, la questione del trasporto non è irrilevante. Le teorie in questo ambito sono svariate e bizzarre: dall’intervento di extra-terrestri, al rotolamento con rulli di legno sopra uno strato di patate, passando per altri metodi più “seri” comprovati da esperimenti concreti sul campo.

Uno di questi è stato elaborato dall’ingegner Pavel Pavel, originario della Repubblica Ceca. Per istinto ed innata curiosità,  Pavel ha voluto mettere in pratica una tecnica basica e allo stesso tempo complessa. Il nodo cruciale del mistero stava nel trovare (e riprodurre) un sistema che gli antichi avrebbero potuto utilizzare per trasportare i Moai, considerando che disponevano di una  tecnologia primitiva e che erano privi di animali da soma, mai vissuti sull’isola.

Sulla scia della tradizione orale trasmessa di generazione in generazione, Pavel ha deciso di sviluppare l’idea dei “Moai che camminano”: le pochissime canzoni superstiti dei secoli scorsi – la cui veridicità è ancora messa in dubbio – e le leggende che i nativi conservano gelosamente, narrano infatti che le statue si siano mosse in posizione verticale, riproducendo un vero e proprio cammino.

Partendo da ciò, Pavel mise in moto le sue doti ingegneristiche e si dedicò a calcoli matematici per sfidare le svariate tonnellate di pietra (la statua più grande dell’isola, incompiuta, misura 22 metri ed è stimato che possa pesare anche 80 tonnellate)a risvegliarsi dopo almeno quattro secoli di sonno. Iniziò dal dato di fatto che per far ruotare un oggetto su una superficie dura, bisogna sollevare leggermente la base così che sul lato opposto si crei il centro di rotazione. Questa inclinazione si sarebbe potuta creare semplicemente legando una corda intorno all’oggetto e tirando. A questo punto bisognava studiare la seconda e più complicata parte, la rotazione. Con lo stesso principio per cui una trottola viene fatta girare tirando una corda legata sulla parte superiore, Pavel progettò di legare una fune attorno alla circonferenza della statua in modo che, coordinando le forze di inclinazione e rotazione, si sarebbe potuto ottenere un movimento simile a una camminata.

Ovviamente non fu un lavoro semplice: calcolare il centro di rotazione, il coefficiente di attrito e la spinta necessaria richiese studi approfonditi, e l’intuire la forma della base dei Moai e la pendenza del terreno implicò, perché no, anche una buona dose di fortuna.

Per provare le sue teorie, dapprima Pavel realizzò nella sua cittadina, Strakonice, una replica di un Moai in cemento di quattro metri e mezzo per dieci tonnellate; dopodiché, cercò di spostarlo con l’aiuto di soli diciassette uomini divisi in due squadre, una per l’inclinazione e una per la rotazione. Lo strepitoso successo ottenuto fu determinante per attirare l’attenzione del celebre etnografo ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl che, nel 1986, lo invitò a partecipare alla spedizione organizzata dal museo Kon-Tiki proprio sulla tanto agognata isola di Pasqua.

Fu qui che Pavel, nel corso di ventiquattro giorni di spedizione, poté ripetere l’esperimento con un esemplare originale, sotto gli occhi e le telecamere di tutti gli interessati del settore. Ovviamente non mancarono le difficoltà. La prima fu nella base della statua concessa per la prova, estremamente erosa poiché fatta di fragile tufo vulcanico; la seconda, e forse più gravosa, fu la scarsità di tempo avuto a disposizione per esercitarsi e coordinarsi. Infine, non trascurabile fu l’indole “rilassata” dei nativi, che collise con l’impostazione metodica di un ingegnere di un paese socialista.

Tuttavia anche stavolta Pavel riportò un risultato positivo che venne registrato come un contributo fondamentale alla scoperta del metodo di trasporto dei Moai (proprio sulla base del suo esperimento del 1986, gli scandinavi Lipo e Hunt ne organizzarono un altro, venticinque anni dopo). La statua percorse, camminando, più di sei metri e tutt’oggi la si può visitare, nel suo punto d’arrivo, la baia dell’Ahu Tongariki.

 

Miriam Acquaroli traduttrice italiana e curatrice del libro “Rapa Nui – l’uomo che fece camminare le statue di Pavel Pavel

 

Per saperne di più sull’autore: https://it.wikipedia.org/wiki/Pavel_Pavel

Link al libro: http://www.bibliotheka.it/Rapa_nui_IT

Intervista all’autore: http://www.bibliotecaedizioni.it/sotto-i-riflettori/112-intervista-allingegner-pavel-pavel-autore-di-rapa-nui.html

Ultimo aggiornamento Lunedì 04 Settembre 2017 06:41