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Uno Sguardo sulla Crisi

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Autore: Stefano Ceccatelli

 

 

Che tempi stiamo attraversando? Che tipo di crisi è quella che stiamo ancora vivendo, iniziata nel 2007 negli USA con la bolla dei mutui? Ci sono raffronti proponibili con l’ultima grande crisi economica mondiale, quella del 1929? Quali prospettive di fuoriscita dalla crisi si potrebbero delineare, e in che tempi?

Ecco le domande che mi ripropongo di focalizzare con queste brevi note.

Dunque. Viviamo tempi di crisi: crisi di “governance”, crisi della famiglia, e poi, a cascata, crisi della società, del lavoro, della scuola, della sanità, etc…

 

 

Però attenzione a non far d’ogni erba un fascio. L’economia mondiale, nel suo complesso, anche in questi ultimi fatidici sei anni, è cresciuta sempre. Segno che la crisi non ha colpito dappertutto allo stesso modo.

Economie di grandi paesi come l’India e la Cina hanno soltanto attenuato la loro straordinaria crescita del volume del PIL. Un intero continente come l’Africa, dal 2007 ad oggi, ha visto aumentare significativamente la sua crescita, pur rimanendo la cenerentola delle economie planetarie.

A risentire di più dell’attuale crisi sono stati i paesi più sviluppati, le cui popolazioni, ormai da tempo assuefattesi ai beni di prima necessità, sono indotte da decenni, con l’ausilio di tecniche sempre più sofisticate, a desiderare beni superflui (auto di gran lusso, vacanze esotiche, dimore sempre più esclusive, e via discorrendo).

Da questo punto di vista la crisi che stiamo attraversando è anch’essa, come quella del 1929, una crisi da sovrapproduzione: occorreva indurre nelle persone qualche bisogno nuovo, diverso, insolito (e spesso superfluo), se si voleva che le industrie non restassero ferme.

Ma le analogie con il ’29, a un rapido sguardo, finiscono qui.

Perché quella attuale è anche e soprattutto una crisi da debito. E’ difficile accorgersi di una crisi da debito, perché finchè l’economia tira e la gente continua a comprare e a vendere, chi si rende conto che è stata innescata una trappola e che i soggetti più deboli ci cadranno dentro?

D’altronde l’agevolazione del credito facilitava l’accesso a quei bisogni indotti a cui poco sopra accennavo e tutto questo somigliava maledettamente a una mano di poker nella quale vincono tutti: dalla classe politica che vinceva le elezioni facendo fare al paese il passo più lungo della gamba e accollando alle generazioni future un pesantissimo fardello, all’utente finale della catena che realizzava l’agognato desiderio indebitandosi fino al collo.

Senza andare tanto lontano, il rapporto debito pubblico-PIL, che in Italia era circa all’85% negli anni ’80, verso il 2000 era già passato al 105% circa (oggi è quasi al 120%).

Lo scoppio della crisi del 2007, con il crack di numerose grandi istituzioni fianaziarie, ha portato ogni Stato a ricercare le più varie soluzioni al problema dell’indebitamento. Chi semplicemente nazionalizzando questo debito, come è successo in Inghilterra, chi ricorrendo ai cospicui prestiti della BCE, come è il caso spagnolo.

Come si potrebbe uscire da questa spirale perversa? Due sembrano le strade percorribili.

Risanare il sistema delle istituzioni finanziarie, di qualunque tipo esse siano. Con le banche che devono tornare sì a essere imprese che muovono capitali per produrre dividendo, ma non certo a vantaggio soltanto di quei pochi azionisti di maggioranza e attraverso speculazioni azzardate e assolutamente non trasparenti.

Qui avrebbe da insegnarci parecchio il recente referendum svoltosi in Svizzera e che ha visto prevalere il sì al fatto che i compensi per i grandi manager di queste (e di molte altre) istituzioni sia deciso d’ora in avanti dalla grande assemblea dei soci; un sistema che renderà molto più democratica ed economica la gestione di queste imprese.

Tuttavia soprattutto le banche dovranno porsi di nuovo (e quanto prima lo faranno più si avvicinerà la ripresa) “al servizio” dell’economia reale, imprese e famiglie in primo luogo, recuperando il loro originario ruolo.

L’altra via da percorrere sarà un ripensamento del senso complessivo della produzione: cosa si produce e per chi.

Tutti dicono che occorre puntare sulla qualità per meglio combattere la concorrenza di certi paesi. Io credo che quella della qualità sia un’ottima base di partenza ma bisognerà intendersi. Non è, tanto per esemplificare, da prodotti di qualità eccezionale come la Ferrari (un anno e tre mesi per avere un veicolo) che possiamo generare un futuro diverso. Dovremo riscoprire qualità oggi poco di moda come la sobrietà e la sostenibilità. Non voglio fare un elogio della lentezza: diciamo che non mi spaventerebbe una leggera decrescita del PIL se questa fosse accompagnata da effetti benefici come una maggiore attenzione alla salute del pianeta e all’indice di GINI, che valuta la forbice esistente fra ricchi e poveri all’interno di uno Stato.

Quest’anno ricorre il terzo centenario dalla nascita di Antonio Genovesi, il fondatore della moderna economia civile: facciamo ripartire il turismo sostenibile, il mondo della cooperazione, la green economy (ma che sia green!), l’economia di comunione e avremo trovato il modo migliore per festeggiare davvero la sua ricorrenza.

E veniamo al nodo più politico. Quando usciremo dalla crisi? Con quale tipo di politica?

Qui è bene essere realisti: la crisi sarà ancora lunga e forse non ne usciremo prima del 2020. Ma molto dipenderà da come la politica saprà organizzare una risposta alla crisi.

Un punto sembra chiaro: per noi europei serve più Europa. L’Euro era un progetto interessante (un’unione monetaria che aprisse la strada ad un’unione politica), ma è rimasto incompiuto. Si tratta di riprenderlo. I premier dei singoli Stati europei usano spesso l’Europa come un alibi: vanno ai loro incontri periodici del G7, decidono in modo antieuropeo e poi tornano in patria e danno all’Europa la colpa delle decisioni a cui loro stessi hanno contribuito. E’ questo atteggiamento ipocrita che deve cambiare. Servono persone preparate che abbiano a cuore il bene comune; si torni a ragionare con il cuore e non soltanto con il portafoglio e a guardare non soltanto agli immediati interessi di bottega di un infinita campagna elettorale, ma ad immaginare anche il domani e il dopodomani. E’ questa in fondo la differenza fra il politicante e lo Statista.

 

http://www.cittanuova.it/c/426408/Tornare_a_Genovesi_per_capire_le_origini_della_crisi_e_uscirne.html

Ultimo aggiornamento Domenica 07 Aprile 2013 18:19